Studi sul Cristianesimo Primitivo

Lc 23,44-45 e At 2,20 e data della crocifissione

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lino85
view post Posted on 17/12/2011, 14:09     +1   -1




Riguardo al problema della datazione della crocifissione, spesso sembra non considerarsi il particolare della narrazione dell'eclisse in Lc 23,44-45 (gli altri sinottici invece parlano di un più generico buio su tutta la terra):


"Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo." Qui si fa un riepilogo delle analisi storiche di questa affermazione: http://en.wikipedia.org/wiki/Crucifixion_eclipse Sembra abbastanza facile vedere una scarsa o nulla valenza storica all'affermazione di Luca, la durata dell'evento astronomico e il fatto che la Pasqua ebraica è legata al plenilunio e non al novilunio (ed è con la luna nuova che avvengono le eclissi di sole) pare screditare del tutto la narrazione.

Leggo comunque dallo stesso link di prima che gli studiosi Humphreys e Waddington sembrano aver concluso che una delle date più probabili della crocifissione è il venerdì 3 aprile del 33, giorno in cui è avvenuta un eclisse lunare visibile da Gerusalemme e dunque tale narrazione di Luca può essere un errore di memoria o di trascrizione. I due studiosi citano anche At 2,20 "Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue,prima che giunga il giorno del Signore, giorno grande e splendido." come possibile testimonianza di questa memoria di tale eclisse lunare. Volevo sapere da voi qualche riferimento al riguardo sull'origine e la valenza della narrazione lucana e sugli studi sulla datazione della crocifissione.

Ciao.
 
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view post Posted on 17/12/2011, 15:07     +1   -1
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Ciao, ti scansiono alcune pagine dal "Patì sotto Ponzio Pilato?" di Vittorio Messori che contengono molte ipotesi a proposito di quest' eclissi, tra cui la tesi che le traduzioni che parlano di eclissi si ingannino.

XXXIV.
«Si fecero tenebre su tutta la terra»

Stando ai soli vangeli sinottici (non, dunque, a Giovanni), la morte di Gesù è accompagnata da «segni» misteriosi: tenebre scese sulla terra per tre ore, la cortina del tempio lacerata in due parti. Matteo aggiunge anche un terremoto, l’apertura di tombe, la risurrezione di morti con il loro ingresso (e relative apparizioni) in quella che significativamente - e vedremo perché - è detta dall’evangelista non Gerusalemme ma «Città Santa».
Che dire di tutto ciò, nella prospettiva che qui abbiamo adottato: il vagliare, cioè, la storicità di quanto i vangeli riferiscono sulla passione e morte del loro Cristo?
Sarà bene riflettere, innanzitutto, sull’inquadramento che, alla pari di altri esegeti, dà a questo complesso di «segni» Pierre Benoit, per molti anni direttore della prestigiosa École Biblique di Gerusalemme: «Occorre rendersi conto del genere letterario di queste descrizioni: non si tratta di istantanee fotografiche né di reportage, ma di racconti di portata biblica e di intenzioni teologiche. Senza negare per principio simili avvenimenti meravigliosi, abbiamo il diritto di domandarci perché sono raccontati così e se gli autori dei vangeli non avessero l’intenzione di evocare dei temi biblici che vedevano allora realizzati».
Continua il celebre biblista domenicano: «In effetti, è un modo comune, nella Bibbia, di descrivere il Giorno di Jahwé, il gran Giorno escatologico, con dei fenomeni cosmici, con uno scuotimento del mondo comportante spesso tenebre e perturbazioni nel cielo. Qui interviene un quadro orientale che usa dei cliché, senza prenderli alla lettera, per esprimere un’idea profonda, una realtà spirituale. Ad un ebreo bastava citare questi passaggi profetici dell’Antico Testamento per richiamare temi letterari di cui anche gli evangelisti erano nutriti».
Ad appoggio della sua spiegazione, il padre Benoit cita, tra gli altri, Sofonia (1,15), Gioele (2,10 e 3,3 s.) e soprattutto Amos, il cui libro profetico è, tra l’altro, il più antico tra tutti quelli della Bibbia: «In quel giorno - oracolo del Signore Dio - farò tramontare il sole a mezzodì e oscurerò la terra in pieno giorno» (8,9). Sempre in Amos sembrano trovarsi dei riferimenti che, letti post eventum, possono far pensare a vaticini anche del terremoto e dell’uscita dei morti dalle tombe di cui parla Matteo. Almeno qui, forse - a differenza di tanti altri versetti che abbiamo esaminato - il clima profetico può avere in qualche modo guidato l’evangelista che è sì cronista, ma anche ebreo devoto; che dà sì fatti, ma anche la loro lettura religiosa.
Benoit, comunque, conclude: «C’è, dunque, un modo abituale per gli autori biblici di descrivere il Giorno di Jahwé. Per gli evangelisti, il giorno in cui Gesù muore è appunto quel Gran Giorno, il giorno del castigo e dell'inizio dell’era escatologica. E dunque naturale che, per dipingerlo, si servano di immagini tradizionali nel linguaggio profetico».
Anche al di fuori della Scrittura canonica - e per rifarsi a tempi successivi, quelli del Talmud - vediamo che fenomeni «fisici» accompagnano la morte pure di rabbini particolarmente famosi e venerati: stelle divenute visibili in pieno giorno, statue di idoli rovesciate, mare di Tiberiade che si apre, case che crollano a causa del tremore della terra, alberi sradicati...
Non a caso, i «segni» di cui ci occupiamo in questo capitolo sono più numerosi proprio in Matteo, l’evangelo scritto assai probabilmente in ebraico, comunque per gli ebrei, e utilizzando un linguaggio che - a un’analisi attenta - mostra di essere come «in codice», per significare agli ascoltatori - tutti buoni conoscitori dell’antica Scrittura - che ci si vuole rifare all’attesa religiosa giudaica.
«I sepolcri si aprirono e molti corpi di santi risuscitarono. E, uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione entrarono nella Città Santa e apparvero a molti» (Mt 27,52 s.).
Poco si è notato che, qui, Matteo non parla di Gerusalemme, concreta e terrena capitale della Giudea, bensì di «Città Santa», intendendo alludere così (in accordo, del resto, con altri passi sia dell’Antico che del Nuovo Testamento) a un luogo della geografia celeste, alla capitale del Regno degli Ultimi Tempi, fondato dal sacrificio redentore del Cristo. Linguaggio, dunque, non da «re-
porter» - almeno qui, lo ripetiamo - ma da autore biblico, da «teologo della storia», come confermano anche altri termini impiegati, del tipo «i santi» per indicare personaggi dell’antichità ebraica, innanzitutto i patriarchi.
Siamo dunque in pieno clima «teologico» e così chiaramente fanno capire i sinottici, Matteo innanzitutto, con quei suoi «segnali» anche verbali agli ascoltatori ebraici. Per chi comprenda questo, risultano ininfluenti, perché fuori bersaglio, le osservazioni di certa critica che vorrebbe cogliere qui l’ennesima prova del carattere «leggendario» dei racconti della Passione. I versetti che descrivono i «segni escatologici» dopo la morte di Gesù appartengono - per indicazione degli evangelisti stessi - a un genere letterario ben diverso rispetto a quello impiegato per descrivere gli altri eventi di quei giorni drammatici.
Questo precisato, non dimentichiamo però l’inciso di Pierre Benoit: «Senza negare per principio gli avvenimenti meravigliosi... ». Se il significato, se la lettura di quegli avvenimenti sono «teologici», «spirituali», «religiosi», chi potrebbe escludere, in base a quali certezze, che davvero si siano verificati? Occorre non chiudersi mai nel soffocante razionalismo, tenere aperta sempre la possibilità dell’imprevisto, del mistero.
All’inizio del vangelo di Luca, alla stupita domanda di Maria cui è annunciato che diverrà gravida del Messia malgrado «non conosca uomo», l’angelo Gabriele replica con le parole che nella traduzione dei vescovi italiani suonano cosi: «Nulla è impossibile a Dio». L’originale greco dice: «Non sarà impossibile presso Dio nessuna parola» (Le 1,37). C’è dunque un futuro (ouk adunatései). Gabriele annuncia la potenza divina in quel primo giorno della vita di Gesù, ma lascia aperta quella possibilità anche per l’ultimo giorno del Cristo, come per ogni altro suo momento sia prima che dopo la morte e risurrezione.
Prendiamo il primo di quegli eventi: «Venuta l’ora sesta (mezzo-giorno]) si fecero tenebre su tutta la terra, sino all’ora nona {le tre del pomeriggio)». Così Marco (15,33), seguito quasi con le stesse parole da Matteo (27,45). Luca aggiunge invece una precisazione, un particolare che manca agli altri due. Ecco dunque il testo, come di consueto nella traduzione della Cei: «Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio» (Le 23,44 s.).
Come già abbiamo segnalato in altri casi, ci sembra che la versione adottata dall’episcopato italiano sarebbe bisognosa di un ritocco, non solo per rispetto del testo originale, ma anche per evitare equivoci che potrebbero indurre qualche lettore a dubbi e perplessità. Il greco di Luca dice, in effetti, toù eliou eklipóntos, dove l’ultimo termine viene dal verbo ekléipo, che significa (quando, come qui, è usato in senso intransitivo) «mancare, venir meno, cessare», fino al punto che oi eklipóntes sono i «morti» quelli che sono «mancati». Dunque, il terzo evangelista non dice (come traduce la Cei) che il sole «si eclissò», ma che «perse forza», «si indebolì», «diede meno luce».
Non si tratta di una sfumatura, ma di una questione sostanziale: se Luca avesse parlato di «eclissi» si sarebbe messo subito al di fuori di ogni verosimiglianza. Come si sa, il calendario ebraico (che è prevalentemente lunare, a differenza del nostro, che è solare) legava la Pasqua alla luna piena: e l’eclissi di sole è possibile solo in periodo di luna nuova. Luca non cade in un simile errore: ed è questo, dunque, un altro di quei luoghi dove l’investigatore attento del testo originale si conferma nell’impressione di una nascosta accuratezza degli evangelisti, di un loro esprimersi che evita sapiente- mente le inverosimiglianze di cui sono invece accusati troppo facilmente. Anche da qui la nostra proposta di rivedere il testo «ufficiale» cattolico, togliendo ogni riferimento a un’inesistente eclissi.
Già lo precisavamo sin dalle prime righe: occorre essere consa-pevoli che, qui, ciò che innanzitutto importa è il simbolo (le tenebre come segno di lutto cosmico per il dramma che si sta consumando sul Golgotha; il dolore del Padre creatore per la sofferenza del Figlio redentore).
Ma, pur in questa consapevolezza: perché no? Perché, cioè, l’oscurità di cui parlano i sinottici non potrebbe essersi davvero verificata, assieme agli altri «segni»? Non si dimentichi che tutti e tre gli evangelisti si appoggiano a testimonianze precise. Matteo: «Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: “Costui era davvero Figlio di Dio!”» (27,54). In Luca, non c’è soltanto quell’ufficiale romano che «glorificava Dio (dicendo): “Veramente quest’uomo era giusto!”», ci sono «anche tutte le folle accorse a questo spettacolo» le quali «ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto» (23,47 s.).
Pure qui, dunque, gli evangelisti non intendono muoversi nei cieli del mito, nell’iperuranio del simbolo, ma rinviano a persone e a dati precisi. Con espressioni, tra l’altro, dove è forse possibile cogliere il ricordo preciso, la testimonianza in presa diretta. Marco, ad esempio, ha qui, testualmente «il centurione che era in piedi proprio di fronte a lui...» (15,39). In quello «stare in piedi», in quell’ ex enantias autoù, «davanti a lui» sembra di scorgere il lampo del ricordo: o di un discepolo o dello stesso centurione che, come altri ufficiali romani di cui parla il Nuovo Testamento, potrebbe essere benissimo entrato a far parte della comunità cristiana primitiva. E averle donato i suoi ricordi.
Visto che parliamo di quel soldato: sappiamo che tra i pregiudizi indiscutibili e indiscussi della critica sedicente «scientifica» c’è l' escalation che sarebbe possibile cogliere nei documenti del Nuovo Testamento. I più antichi, i più vicini ai fatti, cioè, sarebbero più sobri, mentre lo scorrere del tempo gonfierebbe la tradizione, rendendola sempre più magniloquente, inducendola a rivestire Gesù di significati, titoli, panni sempre più splendenti. E un’applicazione alla storia evangelica (già lo ricordavamo) del dogma evoluzionistico: dal più piccolo al più grande, dal più semplice al più complesso.
Ma lo schema assai spesso non funziona affatto, come più volte vedemmo. Per stare al nostro centurione: quello che, stando al ri-conoscimento unanime della stessa critica è il vangelo più antico, Marco, gli fa dire: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (15,39). Dopo Marco dovrebbe venire, quanto ad antichità di redazione, Matteo. Anche qui, la stessa espressione terribilmente impegnativa: «Davvero costui era Figlio di Dio» (27,54).
Luca sarebbe più recente, più lontano dai fatti, stando ai consueti esperti. Ebbene, proprio qui c’è una sorta di caduta, il rovesciamento dello schema ipotizzato dall' escalation. Per il terzo evangelista il centurione si limita a esclamare: «Veramente quest’uomo era giusto!» (23,47). Non si sale, dunque. Si scende, e di molto: da «Figlio di Dio» a dìkaios, «giusto» c’è una bella differenza! Lo schema, dunque, non funziona proprio: qui meno che mai.
Se ci chiedessimo poi perché Luca non si uniformi alla lusinghiera espressione dei due colleghi sinottici, potremmo forse ipotizzare, come ha fatto qualcuno, che il centurione si sia si avvicinato alla comunità cristiana, che le abbia sì dato la sua commossa testimonianza, ma senza entrare a farne parte, senza giungere a riconoscere nel Crocifisso il «Figlio di Dio», limitandosi a venerarlo come «giusto». Luca, «specialista» dei pagani, potrebbe averlo saputo, a differenza di Matteo e Marco e, dunque, avrebbe rispettato la scelta di quel buon romano, amico ma non «fratello» in senso pieno.
Dio, lo ricordavamo a quegli «specialisti» che vorrebbero farlo agire solo secondo i loro schemi teorici, può tutto: ma spesso, per l’economia del soprannaturale, preferisce agire attraverso cause seconde, senza toccare le leggi da lui stesso date al creato. Se quelle tenebre (per tornare ad esse) ci furono davvero, il Padre non sconvolse di certo la fisica con una eclissi in plenilunio (Luca non questo dice, come vedemmo); né, forse, indebolì la potenza della stella: «E un’ipotesi azzardata, dovendosi supporre che il Sole si sia abbassato di temperatura di almeno 4.000 gradi e che dopo tre ore abbia ripreso la sua normale attività termica e luminosa», per dirla con Giambattista Alfano, un biblista che fu anche un noto e stimato cultore di scienze naturali.
Il padre Lagrange, che passò buona parte della sua lunga vita studiosa a Gerusalemme, osservò più volte - e proprio nel mese di aprile - il fenomeno che i locali chiamano del khamsin, lo «scirocco nero»: un vento che, trasportando sabbia dal deserto, sembra oscurare il sole togliendogli luminosità per qualche ora. Nulla (se non un pregiudizio razionalistico) può impedire di supporre che proprio qualcosa del genere sia avvenuto. Scrive Matteo che le tenebre scesero «su tutta la terra»: ma questo epì pasan tèn ghén lo si trova in altri luoghi del Nuovo Testamento e nei Settanta (la traduzione greca delle Scritture ebraiche) come espressione enfatica per indicare o la sola Giudea o il limite visibile dell’orizzonte.
Potrebbe essere anche questo il caso; ma c’è da riflettere su un fatto singolare. Tertulliano, nel suo Apologeticum, scritto attorno all’anno 200, sfida i suoi interlocutori pagani a documentarsi, scrivendo testualmente: «Voi avete raccolto nei vostri archivi il ricordo di questo caso». E, cioè, il «caso» delle tenebre che sarebbero scese quel giorno e che avrebbero raggiunto anche Roma, spargendovi il panico e suscitando interpretazioni religiose pure presso i sacerdoti dei culti pagani ufficiali. La stessa sfida è lanciata da Ori- gene, poco dopo, nella sua polemica contro Celso, il difensore della paganità; risulta poi ripetuta, seppure più tardi, da Rufino di Aquileia, lo scrittore che tradusse in latino la Storia ecclesiastica di Eusebio e l’aggiornò aggiungendovi un paio di nuovi capitoli. Un comportamento temerario, se dietro non vi fosse una realtà riscontrabile; soprattutto se si aggiunge che gli stessi autori cristiani parlano di testimonianze conservate negli archivi anche per quanto riguarda il terremoto cui fa cenno Matteo.
Tra le singolarità, spesso ignorate, ce n’è un’altra, riferitaci da fonti antiche ma anonime, oltre che da qualcuno di quei «cano ni», quegli elenchi di fenomeni naturali inconsueti che venivano compilati ad uso dei dotti, dei governanti o anche solo dei curiosi. Come risulta da Ezechiele, Dio stesso stabilì i confini della terra da spartire tra le 12 tribù di Israele, assegnando come limite a Nord - tra l’Hermon e il Golan - la regione di Hauran (47,16-18). Pare che questo nome significhi «terra nera», etimologia che ben si adatta alla natura vulcanica del luogo. Stando alle fonti che dicevamo, proprio all’epoca neotestamentaria, nell’Hauran ci sarebbe stato un risveglio dei vulcani, con fuoruscita di imponenti nuvole di fumo che, spinte dai venti, avrebbero coperto vaste regioni e con una serie di terremoti, anche violenti. In una prospettiva di fede, Dio si sarebbe forse servito di questo, piuttosto che dello « scirocco nero », per significare il lutto della creazione? Domanda destinata, ovviamente, a restare senza risposta, a meno di future quanto improbabili scoperte documentarie.
« Scoperte » che credono invece di avere fatto autori come il te-desco Erich Zehren, autore, nel 1959, di un libro dal titolo Der ge-henkte Gott, «Il Dio appeso», e nel quale (con una erudizione straordinaria, quanto gratuita e strumentalizzata a servizio di una tesi preconcetta) attribuisce proprio alle tenebre che sarebbero scese sul Golgotha il «segreto» del cristianesimo. Secondo Zehren, cioè, i contemporanei sarebbero stati indotti ad ascoltare gli apostoli che nel Crocifisso indicavano Dio stesso perché il supplizio sarebbe avvenuto proprio in coincidenza di una eclissi totale di sole osservata in tutto il Mediterraneo. Eclissi - è vero - di cui parlano le fonti antiche (e confermata anche dai calcoli astrologici moderni), che ebbe una grande eco, ma che non solo ebbe luogo nell’anno 29 - mentre sembra ormai certo che la morte di Gesù avvenne nel 30 -, e per giunta un 24 novembre. Inoltre, a parte molte altre considerazioni che suggeriscono di lasciar perdere simili fantasie, seppure rivestite di un apparato «scientifico» di pedanteria tutta teutonica, Zehren finge di ignorare che un’eclissi di sole dura al massimo tre minuti e non tre ore come i sinottici, unanimi, riferiscono.
Mentre le tenebre accompagnano l’agonia di Gesù, ecco, subito dopo la sua morte, il secondo dei «segni»: «Il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso». Così Marco (15,38), ricalcato parola per parola da Matteo (27,51), mentre Luca usa l’espressione «si squarciò nel mezzo» (23,45).
Anche qui, naturalmente, è importante, anzi decisivo il segno religioso, il significato teologico.
Sentiamo ancora Benoit: «Questo velo è un simbolo, era la se-parazione che escludeva i pagani dalla religione di Israele. Si tratta probabilmente del velo del Santo, piuttosto che di quello che copriva l’accesso al Santo dei Santi. Era la cortina che nascondeva l’interno del tempio agli ebrei che non fossero sacerdoti e soprattutto (sotto pena di morte) ai non ebrei. Questo velo proteggeva in maniera esclusiva il segreto della religione giudaica, l’intimità di Jahwé presente solo lì, all’interno del tempio. Squarciare il velo significava sopprimere il segreto e l’esclusività. Il culto ebraico cessa di essere privilegio di un popolo, il suo accesso ora è aperto a tutti, anche ai gentili. Ecco il senso profondo di questo fenomeno».
Senso profondo sul quale ritorna tra l’altro la Lettera agli Ebrei, dove la cortina del tempio è la carne stessa di Cristo, torturata e morta (Eb 10,19 s.). Dunque, continua Benoit, «questo dettaglio dei vangeli è raccontato per insegnare ai cristiani che, attraverso la morte del Cristo, il culto d’Israele è abolito, la religione diviene universale e Gesù stesso, penetrando per primo nel Tempio che è nei Cieli, apre l’accesso della salvezza a tutti gli uomini».
È dunque a simile profondità religiosa che il credente deve so-prattutto guardare, evitando il letteralismo che ha spinto qualcuno a osservare che si registrano talvolta, in Medio Oriente, colpi di vento di tale forza da sradicare e sollevare in alto persino grandi tende sotto le quali vive una famiglia beduina. II vento che, portando su Gerusalemme la sabbia del deserto, oscurò il sole, avrebbe potuto anche (dicono) strappare il velo liturgico.
Ci si espone però, in questo modo, a due difficoltà: entrambe le due cortine del tempio erano alte sui venti metri e larghe dieci, e di tale peso che (stando a Giuseppe Flavio) per portarle periodicamente a lavare occorrevano decine di sacerdoti, i soli autorizzati a penetrare in quello spazio e a toccare gli arredi.
Comunque, quale che fosse la forza del vento, mai avrebbe potuto squarciare quell’enorme cortina «in due, dall’alto in basso»
o «nel mezzo» come precisano i vangeli. Resterebbe la possibilità di pensare a un effetto del terremoto di cui parla l’evangelista Matteo, visto che anche dallo stesso Giuseppe Flavio abbiamo notizia di qualche sisma che, proprio in quegli anni, danneggiò il tempio.
Pur non escludendo, dunque, un evento reale (per il quale Dio sarebbe intervenuto direttamente: e per lo squarciare la cortina del tempio non occorrevano perturbazioni alle leggi della fisica; o avrebbe agito attraverso cause seconde come un terremoto, se non una singolarissima folata di vento), pur nulla escludendo, dunque, meglio osservare che non siamo poi neppure qui del tutto ai di fuori della storia: anzi abbiamo un segnale ulteriore di radicamento in Israele. In effetti, tutti e tre i vangeli usano, per indicare il velo del tempio, la parola katapétasma, che è il termine tecnico corretto, confermato da altre fonti.
C’è, qui, dunque un altro elemento di «continuità» tra i vangeli e la società ebraica prima del 70: un indizio tra i tanti che i redattori conoscevano bene la realtà di cui parlavano; una conferma ulteriore che proprio nella Palestina di prima della catastrofe del 70 si è formata la tradizione evangelica.
E una considerazione che può estendersi anche agli eventi che il solo Matteo aggiunge: lo scoperchiamento di tombe, la risurrezione di «molti santi», il loro ingresso nella «Città Santa». Vedemmo che si tratta di uno «scenario» tipicamente ebraico per indicare il Gran Giorno di Jahwé. Dunque, anche questi particolari - che per certa critica sarebbero la conferma di ciò che uno studioso ha definito «lo scatenamento di fantasie nate negli angiporti ellenistici» - sono al contrario, per chi conosca le cose, una garanzia di inserimento nella tradizione ebraica.
«Continuità» con l’Israele antico, certo. Ma al contempo, anche «discontinuità» con gli interessi della comunità cristiana primitiva. I versetti 52 e 53 del ventisettesimo capitolo di Matteo, con quella storia di risurrezioni e apparizioni, hanno costituito nei secoli una vera e propria «croce» per i commentatori e i teologi.
I tentativi di spiegazione si sono accumulati, anche perché si trattava di trovare una conciliazione con la chiara affermazione, più volte ripetuta da Paolo, che Cristo, ed egli solo, è «il primogenito tra i risorti». I Padri, dunque, o negarono che si sia trattato di vere e proprie risurrezioni, ipotizzando semplici apparizioni; o affermarono che poteva trattarsi di defunti richiamati provvisoriamente in vita alla pari di Lazzaro, e pertanto ritornati poi alla morte. Quasi una sorta di breve «incursione» nella vita terrena - insomma - per ritornare nel sepolcro in attesa della risurrezione universale. Per questo scioglimento dell’enigma stettero, tra gli altri, nomi del calibro di Agostino, Girolamo, Tommaso d’Aquino; ma il magistero della Chiesa si è sempre astenuto dal pronunciarsi a favore di una versione ufficiale. E ancor oggi si discute, così come si discuterà fino a quando si leggeranno i vangeli.
Per tornare a Pierre Benoit, ci sembrano significative le sue riflessioni: «Queste parole di Matteo sono espressione bella, immaginosa, ricca, del dogma della discesa di Gesù agli inferi. Questo dogma, entrato nel Credo, significa che il Cristo è disceso agli inferi non per battersi contro il demonio, poiché il trionfo era già acquisito attraverso la crocifissione, ma per spalancare le porte alle anime liberate. Il Cristo libera dallo sheól tutti coloro che attendevano nell’antica economia della salvezza e li introduce con lui nel Paradiso. Le frasi di Matteo descrivono dunque questa verità:
i morti dell’Antico Testamento risusciteranno nel senso in cui noi lo intendiamo alla fine dei tempi, ma - associati fin da ora alla gloria del Risorto - già entrano nella Città Santa».
(V. Messori, Patì Sotto Ponzio Pilato, Torino, 1992, SEI, pp. 320-329)
 
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